Lunedì 22 Novembre alle ore 11,30 presso la Biblioteca Universitaria di Napoli ci sarà l’ inaugurazione dellla mostra “ Il nitore del collage “ di Antonio Raucci a cura di Dario Giugliano.
Per Antonio Raucci, fare arte significa permettere al fruitore di godere appieno delle suggestioni emozionali e visive scaturite dalle sue raffigurazioni.
Il fascino dei lavori artistici di Antonio Raucci risiede nel far rivivere il passato nel presente proiettandolo verso il futuro ed il gesto creativo, intrecciandosi con i materiali usati, assume una sinuosa eleganza compositiva.
Scrive il curatore Dario Giugliano “Quello di Antonio Raucci può essere visto come un caso emblematico. Egli può ben considerarsi un allievo del compianto Stelio Maria Martini e negli ultimi anni si è avvicinato a Mario Persico, che tra l’altro sul finire dei lontani anni cinquanta del secolo scorso costituì una fonte di ispirazione fondamentale per lo stesso Martini.
Questi, infatti, era solito testimoniarmi l’importanza imprescindibile di Persico nel suo approccio alla visualità (e all’arte) in generale, per lui che, fino a quando lo incontrò, poteva dirsi un giovane letterato di matrice post-simbolista o post-ermetica.
Cosa ha rappresentato, dunque, Persico per Martini, prima, e per Raucci, adesso?
Per farvi cenno, penso possa essere utile ricordare un altro protagonista dell’arte italiana del Novecento, Erico Baj.
In particolare, Martini mi riferiva spesso di un aneddoto, che aveva visto coinvolti lui e Baj, che gli aveva manifestato il suo entusiasmo per la famosa colla bianca, il polivinilacetato, conosciuto col nome di Vinavil. Martini sosteneva che la passione di Baj per questo collante fosse tale che sognava addirittura di dedicare a essa il nome di una rivista. E la colla è il mezzo col quale si realizza quella che, probabilmente, può essere considerata una delle forme d’arte emblematiche del Novecento, il collage.
Questa forma, a sua volta, rende palese i tratti di una particolare dinamica estetica, quella che Lautréamont, nel sesto dei suoi Canti di Maldoror, mette a fuoco, nel descrivere la bellezza del sedicenne Mervyn. Si tratta di caratteristiche che, propriamente, si ascrivono a quel tipo di bellezza cosiddetta funzionale, quella per intenderci che cattura la nostra attenzione quando siamo al cospetto di un oggetto di design particolarmente riuscito.
È ciò che ti fa vedere “bella” una cavalletta, mi disse una volta Bruno Munari. Ma la serie di esempi che Lautréamont redige si conclude con la definizione più nota, quella che è stata considerata a ragione all’origine della poetica surrealista.
Mervyn, “questo figlio della bionda Inghilterra” è bello “soprattutto, come l’incontro fortuito sopra un tavolo da dissezione tra una macchina da cucire e un ombrello!”.
A quale tipo di bellezza sta facendo cenno Lautréamont? Il discorso è molto complesso e non è possibile esaurirlo in così poco spazio, ma per accenno possiamo dire che quella casualità, a cui il letterato francese fa riferimento, più che essere un valore in sé e per sé, deve essere considerata come l’occasione che, di volta in volta, è in grado di rendere manifesto un nuovo aspetto della realtà e, quindi, di far emergere, ogni volta (unica) la realtà stessa nella sua manifestazione fenomenica.
E cosa altro potrebbe mai essere la bellezza se non questo?
E tutta la poetica novecentesca, quella ovviamente più avvertita sul piano critico, rispetto a una tradizione che accoglie, interrogandola, non è altro che l’esito coerente di questa considerazione estetica.
Non sembri strano che, a ventennio concluso del nuovo secolo, stiamo ancora parlando di Novecento. Da un lato, le persone in gioco (compreso il sottoscritto), anagraficamente, appartengono tutte al secolo passato; ma non è tanto questo ciò che conta quanto, invece, il fatto che la poetica novecentesca è ben lungi dal potersi considerare trascorsa.
La nostra sensibilità è ancora fermamente radicata in quel canone estetico, che ha le sue ascendenze nel periodo della modernità matura (quello, per intenderci, della prima rivoluzione industriale), che avrà nel movimento romantico una sua autenticamente manifesta azione risolutiva sul piano, appunto, latamente detto estetico.
Ora, come dicevo in apertura, a me pare che i lavori di Raucci ben testimonino di questa condizione contemporanea in cui si trova l’arte (con tutto quello che si può intendere con questo termine assolutamente generico e sempre più spesso inadatto a significare una multiformità fenomenica difficilmente collocabile se non su un piano, appunto, latamente estetico – termine altrettanto, sia detto in inciso, generico e inadatto).
Ne è prova un espediente formale (e questo aggettivo finisce per risultare fondamentale) che possiamo riconoscere, da un punto di vista visivo, in una certa “levigatezza”: i lavori di Raucci si sono, a mano a mano, affermati come sempre più gradevoli e accattivanti, piacevoli alla vista, frutto sicuramente di una competenza “tecnica”, nel tempo, progressivamente affinata, il che finisce per rafforzare ulteriormente l’appartenenza di questi lavori alla categoria generale della produzione cosiddetta di genere.
Con questo, e concludo, voglio dire che quella del collage, come prassi estetica che aveva, come ogni iniziativa sperimentale, una finalità riformistica, riformismo che, accolto e rilanciato (esasperato) nell’ambito dei movimenti cosiddetti di avanguardia, tentava di rivoluzionare lo statuto stesso dell’arte, questa prassi estetica, dicevo, ha finito per costituirsi quale ulteriore tecnica che ha dato poi corso a un genere a sé, che, così “addomesticato”, si può frequentare a seconda dell’eventualità (e utilità) momentanea.
Del resto, è consueta, lungo il corso della storia dell’arte occidentale, l’esperienza della perdita di carica trasgressiva di determinate iniziative, a favore di una loro maggiore diffusione e accoglienza all’interno di ambiti magari anche solo tangenti i fenomeni artistici. Anche questo mi pare essere un messaggio da cogliere, lanciato da questi lavori di Raucci, che ci permettono di fare un po’ di chiarezza in più, confermando un orientamento tuttora in corso all’interno della scena del gusto e della sensibilità contemporanee.
All’interno della mostra presentazione della pubblicazione “L’uomo e il tempo”
Con un testo di Dario Giugliano e un’acquaforte e un’acquatinta di Mario Persico
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