L’architetto Luigi Sirico: il professor Martini continuerà a vivere in tanti di noi…

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STELIO M. MARTINI

di LUIGI SIRICO

CAIVANO – Le commemorazioni non mi sono mai piaciute. Sarà un mio pregiudizio, ma mi sono sempre apparse come forme di violenza nei confronti del commemorato, che non potrà più replicare alle banalità del caso,  e piuttosto una forma di vanità del commemorante, che celebra se stesso parlando del defunto.

Ho aspettato perciò qualche giorno prima di trovare la forza di scrivere qualcosa. Ho atteso che il sentimento di riconoscenza sopravanzasse il pudore e la riservatezza che si deve al cospetto della morte di una persona cara. E il prof. Martini mi è stato caro. E gli sono riconoscente, sebbene a sua insaputa.

Non voglio qui ricordare Stelio Maria Martini, l’intellettuale, il poeta visivo e l’artista al cui indiscutibile valore non sarei in grado di aggiungere null’altro. Invece, scusandomi per la mia eccezionale impudicizia, voglio solo ricordare Crescenzo, il padre del mio amico d’infanzia, a cui devo un pezzo del mio immaginario più profondo, che ho timore di chiamare anima.

Quando di ritorno da Toledo mi sono fermato a Saragozza, fu inevitabile l’associazione al famoso manoscritto, opera di Ian Potocki, il cui libro avevo sottratto per la prima volta dalla sua biblioteca.

Al cospetto del futurista Depero  al Museo di Arte Moderna di Rovereto, dove ancora non erano conservate  le sue preziose carte sull’avanguardia e il futurismo, il pensiero corse diritto al suo studio, dove ebbi ancora adolescente il sentore che l’arte non era necessariamente quella dei paesaggi e delle nature morte.

Per un periodo non breve della mia vita ho coltivato la passione per certe forme di concettismo aristotelico, fino all’ estremismo retorico di Emanuele Tesauro. Solo più tardi ebbi coscienza che l’origine di tale inusuale curiosità era forse da ricercare nelle suggestioni dei calligrammi che circondavano il professore e che, annidati silenziosi nella parte più profonda della mia mente, fin dai primi anni della mia giovinezza, erano poi, infine,  riemersi.

Appena due anni fa quando il caso mi offerse una imprevista vacanza a Castellabate, che non visitavo da anni,  la memoria mi ricondusse ad una estate antichissima degli anni ’80. Sulla veranda di quella che noi ragazzi chiamavamo casetta, ed era il suo buen retiro, il professore passava alcune ore a scrivere in compagnia di un suo amico, che con lui condivideva, come dicevamo noi liceali, una nobile serenità. Il frutto di quel duetto agostano credo sia stato un piccolo e delizioso libretto, che ho avuto tra le mani un decennio dopo,  allegato alla rivista Artepresente di Giorgio Agnisola, dal titolo “Un’estate di Virginie” di Orazio Faraone, con introduzione di Stelio Maria Martini.

Ancora da Crescenzo credo di aver mutuato una certa idea di sinistra eterodossa, non  settaria, libertaria e ironica. Ancora da lui credo di aver assunto un certo disinteresse divertito per l’accademia, l’ufficialità, e per i suoi protagonisti, che ho sempre immaginato come certe figurine grottesche di Grosz.

Ecco mi piace credere che un po’ del professore continuerà a sopravvivere in tanti di nuovi. Sarà questa l’immortalità? Lo so che a lui non importerebbe nulla. Ma grazie lo stesso. Grazie Crescenzo

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