IL POVERO Gigi D’Alessio non se l’aspettava proprio la gragnuola di reazioni sdegnate e di commenti critici alle sue affermazioni durante lo show di Capodanno.
Il problema non riguarda la verità delle cose che il cantante ha detto, che sono sacrosante: migliaia di analisi sui prodotti agricoli della piana campana hanno confermato la loro assoluta qualità e sicurezza. Il problema è che queste affermazioni mettono in crisi lo schema di ragionamento implicito ché sta dietro lo slogan della “Terra dei fuochi“, e che potrebbe essere sintetizzato così: la pianura tra Napoli e Caserta è stata massicciamente oggetto nel corso di un trentennio di pratiche di sversamento e seppellimento illegale di rifiuti, che hanno causato l’inquinamento generalizzato dei suoli e delle acque. I prodotti agricoli coltivati su questi suoli sono irrimediabilmente avvelenati, e il loro consumo è una delle cause della più elevata incidenza in quest’area di malattie tumorali. L’espressione “Terra dei fuochi” si è trasformata tecnicamente nel luogo comune che condensa queste diverse affermazioni, collegate tra loro in una catena stringente, auto-evidente di ragionamento, che a questo punto può, anzi deve essere assunta nel suo complesso, senza possibilità di confutazione o smentita, pena il cedimento a forme odiose di negazionismo. In quanto luogo comune di uso corrente, l’espressione “Terra dei fuochi” è entrata addirittura, come neologismo, nel dizionario Treccani.
Il fatto è che questo schema di ragionamento si è rivelato inconsistente, non ha retto la prova dei fatti, i rilevamenti, le misurazioni, il check-up approfondito dell’ecosistema. I dati a nostra disposizione dicono che l’ecosistema della piana campana non è perso per sempre, e soffre degli stessi acciacchi delle pianure europee ad elevato gradi di antropizzazione; che una strada per uscire dalla crisi c’è, e non è quella di inattuabili bonifiche globali, ma il governo e la cura quotidiana di un territorio maltrattato.
Quello che i critici di D’Alessio dovrebbero comprendere è che i fenomeni territoriali e sociali sono eventi complessi. La crisi della piana campana lo è in modo particolare. Nessuno di noi possiede le competenze per un’analisi esaustiva e definitiva. Occorre avere l’umiltà e l’intelligenza di ragionare e lavorare insieme.
Quando parliamo della storia e del funzionamento delle organizzazioni criminali l’autorità di Roberto Saviano è fuori discussione. È vero però che le conseguenze ecologiche e sanitarie dei fatti criminali non sono meri corollari, un dato sociologico o letterario, teoricamente deducibile a tavolino. Si tratta di cose che vanno verificate, misurate, sapendo che il funzionamento degli ecosistemi è una cosa complessa.
Analizzare sul campo i fatti ecologici non significa per nulla negare i fatti sociali e criminali che sono stati faticosamente accertati. Interpretare correttamente i dati sulla salute degli uomini e degli ecosistemi agricoli della Terra dei fuochi non significa minimamente sminuire, circoscrivere o relativizzare la gravità dei crimini commessi, come anche la necessità impellente di politiche pubbliche adeguate. È evidente però che per uscirne fuori, per un progetto di ricostruzione della società e del suo territorio, non c’è bisogno di maledizioni bibliche, di un surplus di terrore. Né di screditare un settore, quello agricolo — e qui D’Alessio ha ragione da vendere — che si è rivelato alla fine, nel caos informe dell’hinterland, l’unica cosa che funziona. Il disastro vero sarebbe se le 38.000 aziende agricole della piana fossero davvero costrette a chiudere. Allora sì avremmo creato un immane deserto economico e sociale, proprio quello che le forze criminali e speculative stanno febbrilmente aspettando.
Fonte – ANTONIO DI GENNARO La Repubblica